Talia si era forse troppo abituata alla notte della costa, così diversa da quella che iniziava a tirare gli angoli del cielo con le sue dita violacee.
Le mancava il pensiero di stendersi su un fianco e addormentarsi senza porre pensieri in mezzo.
Non erano riusciti ad allontanarsi molto e forse in cuor suo Talia sentiva che fosse meglio così: la linea scura della Selvagrama non si era ispessita di molto all’orizzonte. Traversavano una terra che non apparteneva a nessuno, troppo aspra per essere d’uso ai figli degli uomini e non abbastanza crudele perché gli Invisi potessero mettere radici. Talia stringeva i lembi del suo vestito passando gli occhi da cespuglio a cespuglio. Nulla di sufficiente, per loro.
L’unica macchia di alberi si trovava a mezzo miglio di distanza, abbarbicata attorno a un ruscello marcescente per la mancanza d’acqua.
“Dovremo accamparci presto,” mormorò Arodias, grattandosi il mento sotto la barba. “La notte mette già gli uncini.”
“Possiamo allontanarci un altro po’ da quel gruppo di alberi? Vorrei provare a dormire più tranquilla.” Talia si bloccò. Puntando il dito verso una forma scura accanto a un declivio, mormorò all’orecchio di Arodias: “Che cosa è quello?”
“Hmmm.” Tirò le redini così che Kei e Kai potessero prenderla un po’ alla larga e i due uri sbuffarono al cambio di passo. Dovettero inerpicarsi sul basso monticello sulla cui cima stava, come era chiaro ora che si avvicinavano, il cadavere di un uomo sepolto da un cavallo azzoppato.
Il cuore di Talia le salì fino a ostruirle la gola. Il lieve mormorio del vento divenne l’eco del rombo del suo sangue nelle orecchie. Il cavallo sembrava morto da poco: la pelle gli si era appena tirata sul muso ed era coperto di mosche e insetti accorti al gran banchetto.
Il resto della carne era intonso. Sembrava che nemmeno un lupo, un falco o una volpe di passaggio avessero ceduto all’afrore del fortuito desco. Il cavaliere non sembrava essere stato altrettanto fortunato: era ridotto a uno scheletro, le ossa candide spiccavano in mezzo all’erba dorata e alla pelle scura di quello che era una volta stato il suo destriero. I vestiti pendevano dagli arti come le vele di una barca in bonaccia, e gli anelli d’oro e d’argento che ancora cingevano le sue dita parevano risplendere di una luce più fredda di quella della luna in agguato.
“Di ferro sale e fuoco io sia pago: e vano della Selvagrama il giogo,” mormorò lei portando l’indice alla bocca.
Arodias lasciò andare le redini e rimase a guardare il teschio lucido.
“Cosa dicevi poco fa? Che gli Invisi verranno a prenderseli di persona? Ecco il primo.” Scosse la testa e tirò le redini di nuovo. Kei e Kai sbuffarono e si allontanarono di buon passo. Talia rimase a guardare lo scheletro ancora per qualche istante, resi forse più rapidi dallo sfarfallio dei suoi battiti.
“A-Aspetta,” esalò in un sospiro che sorprese anche lei. Arodias le rivolse un incuriosito lampo grigio dal suo unico occhio. “Pensi che sia stata la Casa di Primavera? O quella d’Autunno?”
“Difficile a dirsi da qui,” rispose lui, passando una mano sul dorso di Kei che sembrava quello più indispettito dei gemelli. “Dovrei dare un’occhiata più da vicino. Ma le ossa ci sono.”
“Quindi se non è stata la casa d’Autunno possiamo fare qualcosa, non credi? Almeno lo spirito di quel poveretto non se ne starà per sempre sotto il suo destriero, a impazzire sotto il sole.”
Arodias esalò un lungo respiro dalle nari, portando l’occhio alla luna. Il disco d’argento era più chiaro contro il cielo che andava imporporandosi.
“Sei sicura? Perderemo del tempo.”
Talia deglutì.
“Sì. Sì, sono sicura.”
Lui annuì.
“Molto bene allora.” Si girò per prendere il necessario dalle loro scorte e poi scese dal carro, aiutandola a toccare di nuovo terra. Kei e Kai sbuffarono nervosi, e lui li rassicurò con una veloce grattata sul collo. I due uri continuarono a ondeggiare irrequieti, ma sembrarono accettare la deviazione.
“Grazie,” disse lei iniziando a togliersi gli stivali. “Mi dispiace per il tempo perso ma…”
“Non devi giustificarti.” Arodias le passò una mano sulla testa, carezzandole le sparute ciocche bionde e si sentì per un attimo proprio come Kei. “Mi fa piacere.”
In quelle parole e nel suo sorriso lesse la stessa soddisfazione che aveva cercato di guadagnarsi con la sua giornata di lavoro. Eppure non era sicura di essersela altrettanto meritata.
L’erba e i ciottoli le morsero aspri i calcagni seguendo Arodias, anche lui a piedi nudi. Tirò fuori due campanelle di ferro e gliene porse una. A ogni passo la facevano suonare.
“Ahi, ahi!” Disse lui con voce chiara, “ecco che arriva il ferro mortifero!”
“Ahi, ahi!” Gli fece eco Talia, scuotendo la campanella. “Ne avverta l’eco la Corte tutta!”
“Sia della Primavera o dell’Estate, o dell’Autunno meditabondo: sentano tutti il morso del metallo.”
Si fermarono un attimo ad attendere, gli echi delle campane che si disperdevano per la piana dorata.
Lo scheletro non si mosse. Le mosche continuarono a girare attorno al loro pasto.
Arodias annuì e raggiunsero l’animale. Gli occhi vitrei non si mossero a seguirla, eppure Talia sentì una mano gelida che le artigliava il cuore da dietro la schiena. Una volta inginocchiati di fronte al morto, Talia lo guardò in cerca di una guida.
“Hmmm. Niente pelle. Direi che si tratta della Casa di Primavera. Le ossa ci sono tutte, e nessuna è deformata o vi si è innestata qualche radice errabonda. Però manca anche la carne.”
“Quindi Casa d’Estate?”
“… non credo. Mi sembra più un insistere sullo stato di questo poveretto che una volontà di usarla per qualche rituale. Se fosse stata la Casa d’Estate avremmo visto il teschio infilzato su una lancia di bronzo.” Le rivolse un sorriso sghembo. “Almeno una cosa si può dire su di loro: non sono facili da confondere.”
“Allora possiamo procedere,” Talia annuì stringendo le labbra.
“Prego,” disse lui porgendole una borsa con i sali e gli incensi.
“V-Vuoi che inizi io? Da sola?”
“Non vedo altre fanciulle dalle mani abili qui intorno. Vuoi che torniamo al villaggio a chiedere se qualcuna vuole offrirsi? Temo che avremo di che attendere.”
La pelle le pizzicava in striature, dove le ferite le avevano ancora lasciato sensibilità.
Portò le mani alla maschera e la tolse. Il vento fresco della sera le pizzicò il viso. Poi alzò le mani a palmo e iniziò a versare piccole quantità di sali dalle boccette che Arodias le aveva passato.
“Amara è la Marea per l’Inviso della foresta,” recitò.
A ogni tocco di campana lanciava una manciata dietro di sé.
“Senta la radice il morso agro del sale!”
“Poiché il mare è nemico della Selva e ogni sua stortura vi dilava,” disse Arodias, mormorando la parte che di solito era lasciata a lei.
“Sale porti sale, e ferro porti ferro. E la bocca della forgia…” sollevò l’acciarino e lo sfregò forte contro la campanella. Uno sfrigolio e una meteora di scintille si sparse per l’erba dorata.
Le fiamme crepitarono balzanti, cingendo in un cerchio il cavallo e il cavaliere – neanche avessero imbevuto la terra di olio di roccia.
Talia deglutì un’altra volta.
“… la bocca della forgia sazia.”
Così terminò la litania di purificazione.
Gli spiriti avevano udito e capito.
Le fiamme non durarono molto, ma il loro fumo non prese mai una tonalità cremisi come quelle del campo.
Era stato loro concesso di passare.
Talia si spinse in avanti – esitando. Le dita della mano sfiorarono le ossa di quella dello scheletro, quasi aspettandosi che la afferrassero e la trascinassero con sé.
Le ossa rimasero immobili.
“Io che ti ho visto ti spoglio. Io che ti ho raccolto con le reti della Marea ti slego,” mormorò, tirando via i lembi di vestiti e gli anelli.
Appena ebbe estratto l’ultimo dall’anulare sinistro, lo scheletro tremò e le ossa si separarono con un traballare di stecchi. Il teschio si girò verso sud, verso il mare.
Talia annuì e posò il bottino sull’erba, cingendo le mani in preghiera.
“Che la terra ti sia custode e non tiranna,” mormorò, Poi, tirandosi su le maniche, cominciò a strappare ciuffi d’erba e a scavare una piccola buca. Anche se lo scintillio dei gioielli prometteva loro una settimana di agi una volta tornati alla civiltà, sentiva bene l’eco delle risa intessute per abbindolare gli sciocchi.
La Casa di Primavera non aveva, di solito, l’acume o la crudeltà necessarie per questo tipo di sorprese.
Ma la paranoia era, in questi casi, semplice prudenza.
E poi che senso avrebbe avuto mondare questo poveretto, solo per derubarlo delle cose che aveva? Si immaginava il suo spirito guardarla mentre si riempiva le tasche del suo oro come una ladruncola qualsiasi.
Talia non poteva vedere nulla nella luce tremolante della sera che si avvicinava, ma nel coprire il suo tumulo con i preziosi esalò un respiro di soddisfazione. Chiudendo gli occhi, era facile immaginarsi il cavaliere che si allontanava verso il mare, alzando una mano in saluto.
“Molto brava,” commentò Arodias e lei trasalì alla sensazione di calore che quelle due parole le avevano fatto fiorire nel petto.
“… è stata la mia prima volta. Sono sicura che sia migliorabile.”
“Vi è qualcosa che non lo è? Ora alzati e iniziamo a sistemare il campo. Ti sei meritata di riposare, traccerò i segni io.”
Talia fece come diceva, dirigendosi verso Kei e Kai. Si girò solo una volta.
Gli occhi del cavallo erano andati in fumo, e due sottili strali grigie si sollevavano dalle sue orbite.
Talia si strinse nelle braccia, si allacciò la maschera e accelerò il passo.
***
La sera si lanciò in effetti rapida nel suo capitombolo verso il buio, ed ebbero a malapena il tempo di attizzare un fuoco, trovando riparo dietro la base di un vecchio torrione mangiato dalle intemperie. Era troppo stretto per essere il muro di una cascina, quindi Talia pensava che potesse essere il rimasuglio di un antico bastione di osservazione della Selvagrama.
Probabilmente era solo un brandello di un antico e stolido granaio, ma la confortava credere che potesse offrire qualche protezione in più.
Mentre Arodias tracciava il circolo dodici passi da dove avevano smontato il carro, solcando il terreno con un falcetto di ferro, e poi gettando qualche manciata di sale a intervalli regolari, Talia si diede da fare per la cera, attizzando un fuoco alla bell’e meglio con un po’ di erba dorata, i rami che aveva trovato in giro e un pizzico della loro scorta di carbone.
Mentre già le prime stelle si accendevano a est, Arodias aveva finito e se ne stavano seduti tra gli uri, dividendosi il pane e le ultime salsicce salate.
“Stasera festeggiamo,” commentò, e il motivo era ovvio. “Siamo vicini alla città di Nerza, peraltro. Vedrai che saremo accolti bene,” spiegò con un sorriso.
Talia annuì, anche se dentro di sé aveva un cattivo presentimento.
Ma d’altra parte quando non l’aveva? Forse solo abitudine – aspettandosi sempre gramigna, ogni spiga era una festa.
Almeno avevano scelto una posizione un po’ più sicura.
C’era qualche albero in lontananza che spuntava come un viandante piegato sul corso di quel ruscello che aveva visto prima, ma si erano lasciati indietro entrambi i cadaveri e per centinaia di passi non si vedevano che radi cespugli.
“Farò io la prima veglia,” la rassicurò Arodias. “Così puoi riposare meglio domani mattina: il prossimo pezzo è quasi tutta pianura e sul carro ti troverai bene.”
“Ah,” fece lei. Lo guardò di sottecchi. Era rimasto davvero così contento? “Se l’avessi saputo, sarei diventata un’aruspice. Complimenti e stomaco pieno tutto il giorno! Altro che mercante!”
Arodias rise, un suono forte e crepitante tra le labbra barbute, come i colpi di vento tra le fronde d’inverno.
“Spero di poterti fare cambiare idea presto, mia cara. Nerza ti piacerà, ti dico: la stessa scaltrezza e lingua d’argento.”
Talia sorrise e lasciò che le parole di Arodias coprissero i suoi timori.
Si stese sul carro, raccolta nella sua coperta, mentre Arodias sedeva accanto alle braci spente.
Talia chiuse gli occhi e vide le lunghe file di fuochi notturni che percorrevano la costa – irraggiandosi da Zug ai porti e ai campi e alle altre cittadine come una ragnatela dorata a fare da scherno al buio.
Ma qui, così vicino alla Selvagrama?
Avevano già sfidato la sorte officiando il rito per il cavaliere.
Il vento si alzò e fece scorrere le sue nocche per la nuca esposta di Talia. Rabbrividì anche nella lana.
Strinse le palpebre, spingendo la maschera contro il viso, e cercò di prendere sonno.
L’attendeva la seconda parte della veglia, e sapeva che, così vicina alla foresta, non sarebbe stata sola.
Anche così lontana dagli alberi.
Ormai era troppo accorta da dubitare che non avrebbe ricevuto alcuna visita notturna.
Perché delle tre superstiti Case degli Invisi temeva ciò che era giusto temere: l’infecondità della Primavera, il bronzo acuminato dell’Estate e la crudeltà dell’Autunno.
Ma l’Inverno?
L’Inverno strisciava da sotto le radici avvizzite a cercare solo lei.
Note dell’Autore: grazie di aver letto: ci rivediamo il prossimo giovedì.
Rispondi