Nata di Cera: Una Fiaba Nera – 0

Talia, bambina dal viso sfregiato, viene adottata dal mercante Arodias. Durante gli anni che seguono, Talia cresce nell’isola di Trinacria, in mezzo alle macerie dell’ultima guerra contro gli Invisi, i fatati della Silvagrama. E piano piano, Talia inizia a dubitare quel che le è stato detto sul suo viso e sulla guerra contro la foresta…

Nata di Cera è una fiaba di folklore oscuro, ambientata in Sicilia durante l’ultima glaciazione. Come tutte le fiabe, ha un sacco di mostri. Alcuni si nascondono meglio di altri. Buona lettura.

Anni dopo, Arodias la ritrovò che succhiava formiche.

Piegata in avanti, la bambina si dondolava come seguendo un ritmo tutto suo, un tamburello ignoto a chiunque altro.

Seguendo i suoi battiti, portava poi gli insetti e le dita alla bocca, una a una, schioccando avida le labbra spaccate.

Passandosi una mano per la folta barba, Arodias attraversò il cortile dell’orfanotrofio. Gli altri trovatelli sollevarono lo sguardo al suo arrivo, mettendosi in posa sull’attenti, sorridendo e piangendo, ma a nulla valsero i loro sforzi di attrarre l’attenzione. Il suo unico occhio grigio fisso sulla creatura che si contorceva nell’erba.

Quando fu a qualche passo di distanza, lei lo sentì e sollevò lo sguardo dalle mani inzaccherate. 

“Buongiorno Talia,” esalò tra le crepe del suo respiro. “Sono venuto a prenderti.”

Si accovacciò davanti a lei, facendola trasalire. Nel gesto vide gli echi di una mente polverizzata, che parlava solo il linguaggio della frusta, delle pietre tirate dagli altri e degli angoli in cui rifugiarsi.

Scorse l’occhio grigio lungo la sua pelle abbronzata, più chiara dove le cicatrici del fuoco avevano lasciato vasti spazi lucidi come il cuoio ben conciato. Ma il corpo si era in gran parte salvato. 

Allungò le dita, offrendo un primo contatto – conforto per un animale spaventato. 

La bambina prese un respiro attraverso il cratere che una volta era stato un naso. Lo avvicinò alla sua mano, inspirando di nuovo, emettendo un sibilo flautato. 

Tre profonde linee le attraversano il volto dal mento alla fronte, come se qualcuno le avesse passato un aratro sulla carne, incidendovi profondi solchi che non sarebbero mai più guariti. 

Il fuoco non aveva risparmiato neanche il cranio: l’aveva strinato fino a renderlo quasi spoglio come la luna, salvo per qualche ciocca bionda che spuntava ancora attorno alla fronte e alle orecchie, ridotte anch’esse a moncherini atrofizzati.

Gli occhi, per qualche crudele miracolo, erano intonsi. Lo stesso colore blu intenso, ma la paura febbrile che ora vi covava gli fece stringere il cuore.

Un pupazzo disciolto. Ecco a cosa l’avevano ridotta.

Solo un tenue movimento della mascella tradì la sua ira. Ma i fuochi che volevano divorarlo rimasero nascosti. Lei non avrebbe capito. E forse sarebbe stato meglio se non l’avesse fatto mai.

La sua pazienza sembrò dare frutto. Piano piano, Talia sollevò la piccola mano, su cui ancora si agitava qualche formica, e la pose dentro la sua. 

“Grazie,” disse lui, avvicinando una mano al suo cranio quasi nudo e passandole il palmo sulla pelle liscia. Talia emise un mugugno confuso, mordendosi il lembo di labbro inferiore, ma non si ritrasse.

Per il momento doveva accontentarsi.

“Mastro Arodias, non volete visionarne altri?” Chiese da qualche passo indietro una delle consolatrici dell’orfanotrofio. Abbracciava un paio di ragazzini che le pendevano dalla gonna come pesci impigliati in una rete. “Siete sicuro di volere…?”

La bambina spinse la testa contro il suo palmo e lui obbedì, tornando ad accarezzarla. 

“Non ero sicuro la prima volta,” sussurrò. “E guarda dove ci ha portato.”

+++

Il grano era ormai folto di spine. 

Forse troppo per salvare il raccolto, ma non voleva che diventasse una scusa.

Talia si aggiustò lo straccio attorno alle dita, l’unica protezione che le avevano fornito, e aprì bene la spiga, staccando le spine uncinate che si confondevano in mezzo ai chicchi.

Il sole le batteva sul collo, e la maschera di legno le premeva sul viso. Ogni respiro le si arricciava per l’esofago ed esalava in un’eco flautata. 

Almeno non le avevano fatto troppe storie sul tenere addosso la maschera durante il lavoro.

Anche se era una straniera.

Tirò via un altra manciata di spine dalla pianta di grano e le buttò nel sacchetto che le avevano fornito. Era gonfio, delle dimensioni di un grosso pugno. Le labbra le si arricciarono contro il legno che le premeva sul viso, notando come gli altri non avevano pulito neanche la metà delle sue spine. L’aspettava una buona ricompensa – e passando alla spiga successiva, si sentì contenta di avere speso il pomeriggio a quella maniera, lavorando nel campo per dare una mano ad Arodias con le riparazioni. Sarebbe stato contento di lei.

Se lo immaginò con l’unico occhio grigio a balenare di approvazione e non potè soffocare un sorriso, anche se le labbra lacerate le davano fastidio a tirarle troppo.

Ormai stava per raggiungere la fine della prossima linea di spighe, per poi tornare indietro – l’infestazione sembrava aver colpito quasi ogni spiga. Certo, colpa anche dei villici a stabilirsi così vicino alla Selvagrama: nessuna meraviglia che il grano crescesse con i segni degli Invisi. 

Perché non costruire una città direttamente alle propaggini dello stramaledetto bosco, a questo punto?

Gente sedentaria. Vedere ogni giorno lo stesso panorama doveva cuocer loro il cervello.

Sollevandosi un momento dalla raccolta, spostò lo sguardo oltre il campo contaminato e le mura di terra dell’abitato, verso i colli ancora coperti di normale vegetazione e poi la linea scura della Selvagrama, che incombeva sul mondo degli uomini a meno di un giorno di marcia. 

Talia scosse la testa e si rimise al lavoro. 

Non erano comunque fatti suoi. Ma ne avrebbe tratto beneficio, magari con i ramini che le avrebbero pagato avrebbe potuto comprare qualche striscia di carne salata da condividere con Arodias, e il cuore le zampillò caldo al pensiero di riuscire, per la prima volta, a essere lei a offrirgli qualcosa.

Talia gettò un altra manciata di spine nel suo sacchetto – e nel sollevare lo sguardo incrociò un gruppo di aruspici, i volti coperti di maschere di metallo, le vesti bianche a svolazzare in brani, entrare nel campo. Brandivano alte torce e bastoni di ferro ricolmi di incenso e l’odore le ferì il naso. Dietro di loro stava il capomastro che si sbracciava in grandi gesti.

“Rientrino tutti! Il raccolto andrà bruciato! Lasciate cadere i vostri sacchetti e seguite me.”

Si alzò un mormorio mentre i manovali si guardavano l’un altro. Talia rimase congelata per un istante. Come, bruciato? Ma con tutto l’impegno che ci aveva messo…

Gli aruspici non stettero nemmeno a considerarla. Il gruppo le passò avanti e si espanse a ventaglio.

“Anche tu, straniera,” disse il capomastro scrollandola per le spalle. “Lascia stare.”

“Ma… e il lavoro? Il mio salario.” Lui roteò gli occhi e la tirò via dal campo. Talia si slacciò il sacchetto con le spine, vi diede un’ultima occhiata – era stata così fiera del suo impegno – e lo gettò in mezzo alle spighe.

Passarono in mezzo agli strascichi dell’incenso e Talia si mise a starnutire. Il fumo le grattava i polmoni.

Dietro di loro, gli aruspici abbassarono le torce. Con un allegro crepitio, le messi corrotte si inchinarono alle fiamme. Sottili colonne di fumo scuro si dispersero in nastri vermigli, spandendo per il cielo serale il tocco degli Invisi.

Gli abitanti si inchinarono a toccare la terra con la fronte e mormorarono una litania che Talia non conosceva. Il capomastro si mise su un ginocchio solo, continuando a squadrare gli altri. Lei sentì il dovere di fare lo stesso, ma si trattenne. Forse sbagliare la cerimonia l’avrebbe messa in una situazione peggiore di ignorarla e basta. Ogni cittadina aveva regole proprie.

“Sia mondata la… la terra dal fuoco,” sussurrò lei in mezzo alla tosse, seguendo una formula della città di Zûg. “Sia sal-salvata la messe dal ferro.”

E le strali di fumo carminio continuarono a intrecciarsi nel cielo serale. La tosse continuava a suoterla. Ma rimase dove era, fino a che anche gli aruspici non indietreggiarono, le mani volte al cielo come ad incitare il fuoco, ogni crepitio l’eco di una preghiera. Talia rimase a guardare il campo diventare nero, a prendere boccate di aria fresca ora che il vento era girato.

Alla fine, gli aruspici se ne andarono con la stessa celerità con cui erano venuti e le preoccupazioni tornarono a essere più immediate: i manovali si alzarono verso il capomastro e con loro si alzarono le voci e con le voci i toni.

“Senza grano da salvare con che cosa avrei da pagarvi?” Spiegò il capomastro, la mano che si  avvicinava alla frusta. I volti dei lavoranti si indurirono al gesto, ma non indietreggiarono. “Levatevi di torno prima che ci pensi la guardia. Domani potremo tornare a seminare e allora forse vi sarà un lavoro completo per tutti.”

“Ci avevate promesso un compenso,” sibilò Talia da dietro la maschera. “Non è colpa mia se avete deciso di bruciare il raccolto a metà strada.”

“Tieni la lingua a posto,” le rispose. “Fino a che l’hai tutta in bocca. Che cosa aspettate voi? Aria! Aria!” Estrasse la frusta e vi diede uno schiocco. I lavoranti si dispersero e l’uomo le gettò un altro sguardo di sbieco. “Ti piace ponderare le ceneri? Non hai di meglio da fare?”

“A questo punto, no,” gli rispose piccata, volgendo lo sguardo a terra.

“Guarda in faccia la gente che ti parla.” Si avvicinò, torreggiando su di lei. Talia non si era mai sviluppata molto. Gli anni di esercizio con Arodias le avevano donato muscoli svelti sulle gambe e sulle braccia, ma era rimasta avvizzita, un alberello sempre troppo lontano dalla pozza. Il capomastro la copriva tutta con l’ombra del suo torso. “E ora puoi anche toglierti quella maschera.” Allungò un braccio verso il suo volto. 

Talia trasalì a portò la mano destra verso il petto, dove teneva un piccolo pugnale d’osso. 

La mano del capomastro si arrestò.

Un altro braccio l’aveva bloccato a mezz’aria. Apparteneva a un uomo meno massiccio, ma più alto di lui. Gli ultimi scampoli di sole brillavano sul cranio rasato e gli si impigliavano nella folta barba grigia. L’unico occhio invece sembrava una stella finita ad abitargli nell’orbita scura. 

“Suvvia. Non vi è bisogno di aggiungere altra mestizia alla giornata.” Piegò il capo verso il campo di ceneri. “Non pensate ne sia già gonfia?”

“Arodias…” Talia pigolò.

Il capomastro digrignò i denti, forse valutando la propria stazza contro quella del suo mentore, ma alla fine ritrasse il braccio. 

“Vedi di sbrigare i tuoi affari, mercante,” disse con disprezzo, facendo suonare la parola come un insulto. “Non siete i benvenuti qui e la notte ha le unghie lunghe per quelli come voi.”

“Grazie di avercelo ricordato. Non desideriamo altro che rimetterci sulla strada. Che la notte vi sia lieve.” Accennò un inchino. Rimasero da soli davanti al campo bruciato. “Ti sei data un bel daffare, hm.” Le prese le mani, passando le dita sui palmi arrossati. Si era chinata per ore a strappare spine e per cosa?

“Mi dispiace,” mormorò. 

“Dispiace? Hai fatto del tuo meglio e non hai ricevuto altro che problemi per il tuo impegno. Non è una giornata come le altre?” Strizzò l’occhio grigio e Talia si morse il labbro, trattenendo suo malgrado un sorriso.

“E tu hai sistemato l’asse?”

“Mi ha richiesto un po’ più lavoro del previsto. Non hanno tanti chiodi così lontano dalla costa. Ho dovuto raddrizzarli quasi tutti prima di avere il privilegio di comprarli. Quindi come vedi anche la mia giornata è stata perfettamente normale.”

Talia ridacchiò.

“Allora voglio passare una notte normale anch’essa. Lasciamoci indietro questo villaggio di ingrati.”

Tornarono verso il carro, gli assi riparati di colore più chiaro, ben visibili dove Arodias aveva sistemato la loro casa semovente. 

“Kei, Kai!” Talia sentì le labbra sdrucite che si aprivano in un altro vero sorriso passando la mano pallida sul vello scuro dei due uri, gli enormi bovini che le leccarono contenti il palmo. “Siete stati buoni scommetto. Più educati della gente di qui,” aggiunse mormorando. Talia si tirò su con un veloce gesto e si mise a sedere sul retro del carro, dove stava la sua coperta, il suo cuscino e i suoi rotoli di lettura.

“In carrozza, signori e signorine,” disse Arodias, montando al suo posto e tirando gentilmente le redini degli uri.

Passarono in mezzo alle strade di terra – Talia incrociò lo sguardo di alcuni passanti, che si impigliava alla sua maschera come sardine sorprese da un amo. 

Era una cosa cui era possibile abituarsi?

Meglio dell’alternativa, di sicuro. 

Le case si aprirono in mezzo ad altri campi coltivati, e Talia scorse i segni dell’infestazione anche nelle altre messi: i frutti ridotti a polloni atrofizzati, la polpa di polvere. L’edera soffocante che si insinuava tra le fronte, succhiando la linfa alle piante. 

“Bell’idea stabilirsi qui,” sussurrò dal suo posto sul retro, mentre il carro si allontanava e con esso gli ultimi sguardi incuriositi tornarono ai loro normali alvei. La strada proseguiva solo per qualche altro centinaio di passi – poi sarebbero stati da soli in mezzo alle scarne praterie dell’interno di Trinacria, e più vicini alla linea scura della Silvagrama. 

Talia ne sentiva la presenza, anche se per allora era solo una striscia all’orizzonte. 

Le pizzicava la base del cranio, uno sguardo senza occhi che sembrava seguirla dovunque. 

“Ci si stabilisce dove c’è buona terra,” Arodias rispose pacato. “E se l’infestazione arriva si fa fatica ad andarsene.”

“Se continuano così verranno gli Invisi a prenderseli di persona. Le altre messi sono già contaminate: non ne avranno per molto.”

“Non sembra che ti dispiaccia.”

Talia si guardò le mani arrossate. 

“Non davvero.”

Si sistemò sul sedile accanto ad Arodias, lasciandosi il villaggio e la giornata sprecata alle spalle. Per ogni guadagno c’era un perdita. Avrebbero recuperato.

Ma ora, con la Landagrama bene in vista, si ritrovò a mordersi un lembo di labbro, la tensione che l’aveva accompagnata nelle ultime settimane che tornava a salire.

Arodias le cinse le spalle con il braccio destro e lei si lasciò stringere, grata del gesto.

“Fa un po’ paura così da vicino, eh?” Le chiese passandole la mano attraverso le sparute ciocche che le spuntavano dal cranio. 

“Lo fa sempre. Ma dalla costa almeno non si vede.” Le scarne colline non davano molta copertura. Anche di notte, gli Invisi non avrebbero avuto molti posti in cui nascondersi.

“Che tu la veda o meno, essa vede te. Quindi fa poca differenza,” rispose. “Hai il coltello a portata di mano e sai come utilizzare i sali. Ti ci porto perché so che riuscirai a cavartela. E poi non dobbiamo andare proprio dentro la foresta: questo mio contatto si è inventato una soluzione particolare. Vedrai, Nerza ti piacerà.”

“Speriamo,” rispose lei con la voce venata di inquietudine.

Ma le faceva piacere che le dicesse ancora una volta che si fidava di lei. Sapeva di essere un peso, con il volto butterato che si ritrovava, ma forse, se fosse diventata abbastanza brava, un giorno avrebbe potuto rendere Arodias davvero fiero di lei.

Da un campo lontano qualcosa di bianco guizzò tra l’erba: un cane pastore bianco le lanciò un latrato, chissà se di saluto o di avvertimento. 

Talia si toccò la bocca con le dita e poi alzò una mano a salutarlo. 

Non era certo un’aruspice.

Ma non si sa mai.

Note dell’Autore: Oddio, Montresor scrive anche in italiano. Questo sarà un appuntamento che verosimilmente ci terrà compagnia ogni giovedì, mentre mi preparo a chiudere Patina. La storia qui presente è più collegata a quel mondo di quanto possa apparire a prima vista. Spero passiate dei momenti interessanti con Talia. Grazie della lettura.

Author’s Notes: Yes, Montresor writes in Italian as well. I apologize to my English readers – this new novel will be published in Italian, new chapters likely to happen every Thursday. The bulk of my blog production will still be in English. At any rate, thank you for your patience. I hope you’ll keep having fun with my short stories and web novel. Thank you for reading and your understanding.

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